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Il lavoro è “l’applicazione di energie al conseguimento di un fine determinato”. Le definizioni non sono tuttavia immutabili, e così come tante parole e istituzioni, anche l’organizzazione del mercato del lavoro ha subito nel corso dei secoli importanti variazioni, che dimostrano come esso sia un costrutto sociale, frutto cioè di interpretazioni soggettive guidate dal contesto sociale cui si fa riferimento.

Paul Lafargue, scrittore e saggista di ispirazione marxiana, pubblicò nel 1883 un opuscolo intitolato Il diritto alla pigrizia, nel quale critica aspramente “l’amore per il lavoro”, considerandolo una strana follia che si è impadronita degli uomini e donne della società post rivoluzione industriale. Siamo nell’epoca in cui la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale cambiarono per sempre la società: è un momento storico di crisi profonda, nascono le prime grandi città, si rompono i legami forti delle società tradizionali e non sono più sufficienti le risposte date dalla religione e dal potere politico sulla propria legittimazione: gli uomini hanno bisogno di nuove risposte che spieghino cosa tenga legata la società. In questo contesto, gli intellettuali pongono interrogativi su ogni aspetto della vita. L’analisi di Lafargue porta dunque ad una critica del modello di lavoro contemporaneo, elogiando l’otium petrarchiano, inteso come momento nel quale l’uomo può accrescere se stesso e la propria cultura; tempo dell’ozio che viene di fatto cancellato dai ritmi estenuanti di lavoro della società industriale.

«Anche i greci dell’antichità non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare; l’uomo libero conosceva unicamente gli esercizi corporali e i giochi d’intelligenza».

Tralasciamo le implicazioni ideologiche di Lafargue. Ciò che interessa evidenziare è quale fosse, nell’antichità, l’idea associata al lavoro: ovvero una pratica pesante che toglieva tempo alla cura di se stessi e pertanto da lasciar fare agli schiavi. Non è un caso che nel diritto romano gli schiavi venissero considerati al pari di animali, pertanto acquistabili tramite Mancipatio, ovvero un negozio solenne e rituale, attraverso il quale venivano scambiati i beni più importanti, fra cui anche gli animali da soma. Un’idea che oggi è assimilabile ai DDD jobs: lavori sporchi, pericolosi e difficili, spesso esternalizzati verso le province e, dal punto di vista del capitale umano, lasciati alle persone che ricoprono gli ultimi posti nella scala sociale.

Il lavoro nella nostra epoca è visto e affrontato in maniera del tutto differente. L’art. 1 della Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Questa semplice contrapposizione fra tempi antichi e modernità rende evidente come “il lavoro” sia un costrutto sociale, che svolge spesso una funzione latente molto importante: il lavoro definisce chi siamo, ci assegna uno status e una serie di aspettative legate al ruolo che ricopriamo all’interno della società. Il lavoro rende vivi e vitali; il che rappresenta anche uno fra i tanti motivi per cui chi lo perde decide di porre fine alla propria vita.

Diamo una risposta alla domanda: «Che cosa è il lavoro?»

Il lavoro è un processo attraverso il quale si genera valore per se stessi e per la società nel suo complesso. Riprendendo le teorie di Lafargue, potremmo dire che il valore di un lavoro è dato dalle risposte che esso riesce a dare ai lavoratori, soddisfacendo i loro bisogni economici, sociali, psicofisici, ecc. La conseguenza di quanto affermato prima, ossia che il lavoro definisce una persona, è che un buon lavoro, per essere tale, deve essere un’attività che soddisfi tutti i bisogni dell’uomo.